«L’1 agosto 2016 le “big five” Apple, Alphabet, Microsoft, Facebook e Amazon si sono trovate per la prima volta (anche se nei giorni successivi c’è stato il recupero di ExxonMobil) a occupare le prime cinque posizioni per capitalizzazione a livello mondiale. Alibaba – leader cinese nell’e-commerce – è la società che ha raccolto la cifra più alta della storia in sede di IPO: 25 miliardi di dollari. Mentre Uber è la società che è riuscita a raccogliere il capitale di rischio più elevato – 12,9 miliardi di dollari – fra le non (ancora) quotate. Il nervosismo del mercato, comprensibile per i numeri in gioco, crea però oscillazioni da «montagne russe»: Apple ad esempio, che nel febbraio 2015 «valeva» 775 miliardi di dollari (oltre il 40 per cento del PIL italiano), ne ha persi ben 250 in meno di un anno, per poi invertire di nuovo la rotta».
Professor Bertelè, che cosa indicano questi scenari che cito dalla nuova edizione del suo libro, “Strategia – La Digital disruption distrugge anche la strategia”? Che appunto alla fine non vale la pena ragionarci in modo strutturato?
È un’operazione un po’ malandrina mettere assieme il titolo del libro – “Strategia” – che appare sulla prima di copertina con la domanda provocatoria (caratteristica di tutta la collana Pixel) “La Digital disruption distrugge anche la strategia?” riportata nella quarta. Un’operazione malandrina che fa però risaltare un tema critico: che cosa salvare, che cosa cestinare e come integrare il corpus di concetti che formano la strategia, in presenza di cambiamenti profondi nella domanda, nella concorrenza, negli ingranaggi interni delle imprese e negli ecosistemi circostanti. Il processo di digitalizzazione in corso, con il suo impatto su tutti gli aspetti della nostra vita, è sicuramente portatore di cambiamenti profondi, come lo furono le rivoluzioni nei trasporti (con il treno prima e poi con l’auto), nel manufacturing (con il fordismo), nelle fonti di energia e nei materiali, negli strumenti di comunicazione di massa (radio e televisione). Senza i grandi investimenti per la costruzione della rete ferroviaria nella seconda metà dell’800, non sarebbero nati i grandi monopoli privati statunitensi e non sarebbe nato lo Sherman Act, padre di tutte le authority antitrust mondiali. Senza la rivoluzione fordista dei primi del ‘900, per la costruzione dell’auto, non avremmo probabilmente parlato di economie di scala e di strategie per conseguirle. Senza la radio e la televisione non sarebbero cresciuti i brand (se non a livello locale) e le la creazione di brand e le strategie basate sull’immagine. Senza gli accordi politici per abbattere le barriere al commercio le strategie di crescita delle imprese transnazionali sarebbero state molto diverse. Il mio sforzo è stato quello (i lettori diranno se riuscito) di cercare le consonanze e le dissonanze fra i concetti di base della strategia e i business model che la digitalizzazione rende possibili.
Un’attività economica si muove in uno scenario di competizione globale accelerata. Tutti richiamano alla necessità di scelte veloci, di adozioni di tecnologie avanzate, di flessibilità assoluta. Certo, facile a dirlo…
È vero. È per questo che molto spesso sono le start-up, o le imprese già strutturate provenienti da altri comparti, che – libere dai condizionamenti derivanti dalle competenze e dalle infrastrutture esistenti – hanno una velocità di movimento molto più elevata. Ma per chi è troppo lento nelle scelte (anche se per ragioni comprensibili) “non c’è pietà”: anche perché la globalità della competizione rende vani gli eventuali tentativi di blocco di matrice politica, a differenza di quanto accadeva in presenza di economie nazionali chiuse.
Creare valore, impostare nuovi modelli, rinunciare a parte delle proprio business affidandolo ad altri per ottimizzare i processi. E se si sbaglia?
Il rischio è intrinseco nel fare impresa. Sono convinto però che il gioco sia tanto più pericoloso quanto più i CEO – invece di sforzarsi di comprendere i possibili scenari e valutare gli esiti delle scelte di altre imprese – considerano l’ottimizzazione dei processi, e in particolare la digitalizzazione, come un tema specialistico da affidare ad altri e non come una componente essenziale della strategia dell’impresa. Gli specialisti (interni o esterni) sono indispensabili, ma
devono muoversi in un quadro definito, anche con la loro consulenza, a livello superiore.
Alla fine, c’è un settore che ha più strategia degli altri?
Ci sono settori al momento più tranquilli, perché toccati almeno per ora marginalmente dalla digitalizzazione e settori in affanno, con imprese che combattono strenuamente per mantenere le loro posizioni nei settori stessi o che cercano nicchie in cui ripararsi o attività collaterali verso cui spostarsi. Ci sono dall’altra parte quelli che l’IBM Institute for Business Value chiama in un suo studio recente (citato poche settimane fa da The Wall Street Journal) i digital invaders. Strategie di difesa quindi e strategie di attacco, non solo nei settori legati alla comunicazione e al commercio, ma anche nella finanza, nell’automotive e nel manufacturing.
Umberto Bertelè, l’autore, è professore emerito di Strategia e presidente degli Osservatari Digital Innovation
della School of Management al Politecnico di Milano, dove è stato tra i fondatori del corso di studi
di Ingegneria Gestionale e ha presieduto il MIP. Ecco tutti i riferimenti al libro:
http://pixel.egeaonline.it/it/126/i-libri/196/strategia-ii-edizione